Se leggi le pagine esteri di notiziari e giornali o se le tue bolle algoritmiche sui social sono orientate anche alla politica internazionale, avrai saputo che negli ultimi mesi del 2024 e inizio 2025, la Serbia vede fiumi di manifestanti scendere in piazza, con una protesta che è partita da Novi Sad, passa da Belgrado e arriva a Nis (questi i tre principali centri, ma le proteste sono, in forma minore, in tutto il paese).
Migliaia di cittadini sono scesi in strada per contestare quello che considerano un deterioramento democratico sotto il governo di Miloš Vučević, primo ministro oggi dimissionario, proprio a seguito dell’ondata di proteste.

Novi Sad
nikola rakic, unsplash
Il crollo di una tettoia alla stazione di Novi Sad, di cui per altro Miloš Vučević è stato a lungo sindaco, ha portato alla morte di 15 persone e al sollevamento di una rabbia latente su corruzione e mala-gestione della cosa publica.
La costruzione della stazione è stata data in subappalto ad un fondo di investimento cinese; la “svendita” delle infrastrutture nazionali di interesse strategico a grandi aziende estere, vicine al governo ma che lavorano con materiali molto scadenti, è alla base di buona parte del malcontento generale, da molti anni.
Questa è stata la miccia, il trigger più che la causa:
accuse di frodi elettorali, il controllo dei media e la repressione delle opposizioni hanno alimentato la rabbia popolare, portando a manifestazioni che si ripetono con crescente intensità.
A differenza del passato, in cui le proteste erano spesso limitate a cerchie politicamente attive, oggi coinvolgono una vasta gamma di cittadini: studenti, giornalisti, accademici e persino imprenditori si uniscono per chiedere trasparenza e giustizia.
Dai caffè ai cortei: la città come spazio di dissenso
Belgrado è una città dalla vibrante scena culturale e sociale, e i caffè, da sempre luoghi di discussione, sono diventati incubatori di mobilitazione. Il confronto sociale anche intergenerazionale è molto attivo, anche grazie ad un modello di sviluppo urbano che negli anni ha facilitato i luoghi pubblici di incontro e scambio, come ho scritto in questo articolo.
I caffè storici di Belgrado, non tanto quelli turistici, ma quelli tradizionali, noti come “kafane”, hanno storicamente svolto un ruolo cruciale come luoghi di dibattito politico, culturale e sociale. Questi spazi sono stati punti di ritrovo per intellettuali, artisti e cittadini comuni, dove si discutevano idee e si organizzavano movimenti.
Un interessante articolo su Osservatorio Balcani e Caucaso descrive bene le kafane, “luoghi sospesi nel tempo, lontani dalla frenesia della capitale e dalle cucine high tech”.
Le conversazioni che nascono nei locali storici del centro si trasformano rapidamente in azioni concrete: flash mob, cortei improvvisati e proteste organizzate tramite i social media.
L’atmosfera nei quartieri simbolo, come Dorćol e Savamala, è carica di tensione e speranza. La città stessa diventa uno spazio di contestazione, con graffiti di resistenza che emergono sui muri e striscioni appesi dai balconi. Questa nuova forma di protesta fonde elementi della tradizione belgradese con le dinamiche dei movimenti contemporanei, creando un mix di spontaneità e organizzazione strategica.
La reazione del governo: nuove elezioni o escalation
Il governo serbo ha risposto con una combinazione di repressione e delegittimazione delle proteste, ma alla fine, data la portata della faccenda, il presidente ha sciolto le camere, il primo ministro si è dimesso e si attende la data delle prossime elezioni.
Contemporaneamente, i media filogovernativi dipingono ancora i cortei come tentativi di destabilizzazione orchestrati dall’estero, cercando di minare la legittimità del movimento, dicendo ad esempio che sono alimentati da “altri paesi” – molto in comune con le proteste in Georgia, da questo e altri punti di vista.

Belgrado
Perché ciò che accade a Belgrado ci riguarda
Queste proteste non sono un fenomeno isolato, ma fanno parte di una più ampia crisi democratica che interessa diverse parti d’Europa. Dal Caucaso ai Balcani, dalla Slovacchia alla Georgia, i cittadini si stanno mobilitando contro governi percepiti come sempre più autoritari ma soprattutto corrotti da rapporti con grandi aziende russe e cinesi che hanno molti interessi su questo mercato.
In realtà, l’area di Caucaso e Balcani è strategica anche e soprattutto per l’Europa e per l’Alleanza Atlantica (o quel che ne resta e ne resterà dopo i prossimi anni di governo Trump), per questo molti commentatori, anche in Italia, ritengono che l’ondata di proteste e manifestazioni a Est, dall’Euromaidan in Ukraina alle proteste in Georgia, e ora anche quelle della Serbia, siano spinte dall’Occidente… qualunque cosa questi opinionisti intendano per Occidente.
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