La bambina tra i fiori di Tašmajdan

Parco Tašmajdan, a Belgrado, è uno spazio di passaggio per i turisti, e di sosta per chi a Belgrado ci vive.  

Alcune ragazze leggono dopo essersi guadagnate una panchina libera, cosa che in alcune ore della giornata non è affatto scontata. 

Ragazzi che amoreggiano con l’eco di bambini che si rincorrono con i monopattini e adolescenti in piena tempesta ormonale che praticano sport, esultano, fischiano, ridono. 

Qualche anziana signora tocca la nuova varietà di rose che non c’era l’anno precedente; 

Un anziano riposa, pare dorma, e di profilo è identico al patriarca ortodosso Pavle che da sette anni riposa su una sedia invisibile con la Chiesa di San Marco in prospettiva.

Parco Tašmajdan - belgrado

Tra le rose, i viali e gli spazi sportivi, sono sparse diverse statue che noi turisti, che poco sappiamo della Serbia, non capiamo; 

dal patriarca alla poetessa Dessnka Maksimovic, Josip Broz Tito, persino Don Chisciotte, che sebbene sappiamo chi sia, non capiamo come mai omaggiarlo proprio a Belgrado.

E la risposta è semplice: perché Belgrado fa parte di quelle capitali e di quegli stati che per quanto siano Europa, ci sanno sempre si straniero, esotico, e non ci pensiamo che la formazione e l’immaginario serbo sono in realtà molto vicini al nostro. 

We were just children - belgrado serbia

Ma una statua la capiamo, e ci appare strana, disturbante. E appena la capiamo, ci stringe il cuore. 

Raffigura una bambina sorridente; una delle tante che giovano adesso intorno a me.

Dietro di lei, il freddo marmo simile a quello dei cimiteri moderni, ce la racconta e decodifica in maniera infarntentibile 

“Bili smo samo deca” (“Eravamo solo bambini”) sia in serbo che in inglese.

Dedicated to children killed during the NATO aggression in 1999.

Dedicato ai bambini uccisi durante l’aggressione della NATO nel 1999. 

I bombardamenti NATO in Serbia, nel 1999

La NATO intervenne nei cieli della Ex Jugoslavia, e in particolare della Serbia,  nel marzo del 1999, con una campagna aerea durata 78 giorni

L’obiettivo dichiarato era porre fine alla crisi del Kosovo, dove le forze serbe, sotto Slobodan Milošević, erano accusate di pulizia etnica e repressione violenta contro la minoranza albanese. 

Dopo il fallimento dei negoziati di Rambouillet e il rifiuto serbo di accettare l’ingresso di forze NATO sul proprio territorio, l’alleanza atlantica diede avvio a quella che fu definita un “intervento umanitario”, ma che avvenne senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e che ebbe conseguenze poco umanitarie.

Fu la prima (ma non ultima) volta che la NATO attaccò uno Stato sovrano senza un mandato internazionale; 

Per gli stati NATO fu un’operazione necessaria per fermare crimini in corso

Per i serbi, fu un’aggressione violenta, umiliante e soprattutto ingiusta, vissuta non come una liberazione, ma come un bombardamento contro la propria nazione e identità.

L'incredulità della gioventù serba

La blogger, giornalista e attivista femminista serba Tatjana Dordevic, 25 anni fa raccontò sul suo blog la vita sotto i bombardamenti. 

“Quella sera Miloš ci ha detto che entro pochi giorni la NATO avrebbe potuto bombardarci. Dice di aver sentito la notizia al telegiornale. Nessuno di noi vuole credere alle sue parole, anzi, scoppiamo in una grassa risata. Non posso neanche immaginare che un altro paese bombardi il nostro. È qualcosa di surreale. Per quanto ne so, la NATO è un’alleanza, non rappresenta un paese solo e sarebbe molto ingiusto se ci schiacciasse con la forza.

Verso la fine di marzo abbiamo smesso di salire alla fortezza perché le bombe che cadono sulla nostra città sono molto vicine. I missili si possono vedere a occhio nudo”.

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Durante quei 78 giorni, le bombe caddero su obiettivi militari, ma anche su ponti, centrali elettriche, stazioni ferroviarie, fabbriche, ministeri, quartieri civili. 

Il centro di Belgrado fu colpito in pieno giorno. L’edificio della RTS, la televisione di Stato, venne distrutto: morirono 16 giornalisti e tecnici. Le vittime civili stimate sono oltre 2.500, tra cui almeno 89 bambini. 

Alcuni attacchi colpirono convogli di rifugiati, ospedali, ambasciate straniere. L’uso di uranio impoverito in alcuni ordigni è ancora oggi al centro di dibattiti per gli effetti a lungo termine sulla salute.

La Serbia uscì devastata. Belgrado, la sua capitale, mostrava ferite visibili e invisibili. La città, che da sempre si ergeva come ponte tra oriente e occidente, venne ridotta a simbolo del conflitto, dello scontro, della distanza. 

"Tu sei un'Italiana buona"

belgrado sabrina barbante

Nel week end Bazar di Belgrado, un mercatino di artigianato spesso contornato da concertini e jem session, chiacchiero con i commercianti, socievoli e schietti. Per ogni maglietta con stampa artistica che acquisto, mi regalano una matita, un quaderno, una shopper con il loro logo. 

Mi chiedono da dove vengo. Dico che sono italiana. 

Uno di loro, alto, magro e brizzolato, dopo due secondi di silenzio e sguardo ironico rivolto al cielo mi dice “ma si vede subito che tu sei un’italiana buona”.

La consapevolezza che dal mio paese sono partiti tutti i missili che hanno bombardato la sua città e forse ucciso suoi cari mi aiuta a non far impermalosire  l’anima Italiana ed europea che mi sono costruita nella mia gabbia dorata. 

Oggi, per molti serbi, la NATO non è solo un’organizzazione militare: 

è il nome di un trauma collettivo. Il rapporto con l’Occidente è ambivalente, tra una riconciliazione dovuta anche alle contaminazioni positive (e ai soldi) portati dal turismo, e ferita geopolitica. 

L’Europa, vista da qui, è vicina ma lontana, come un parente che ti ha voltato le spalle. 

Chiacchierando con chi hai voglia di parlarne si capisce che per molti di loro, il senso di 78 giorni di bombardamenti su civili e infrastrutture nel cuore dell’Europa, non è ancora chiaro. 

E del resto, credo non lo sia ancora neanche per noi. 

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