C’è stato un tempo, che i travel blogger della prima guardia ricorderanno bene e anche con un po’ di nostalgia, in cui il viaggio prima si esperiva, poi si raccontava.
Erano due fasi diverse, ma collegate in un unico cerchio: ricordo come amavo viaggiare e prendere appunti, e poi rivivere tutto e riscriverlo nei mei itinerari, al rientro.
Non era qualcosa che riguardava solo me, ma comune a tutti i blogger per professione; gli accordi con gli enti del turismo per i blog tour e le collaborazioni avevano l’insita clausola secondo cui l’esperienza di viaggio era prima vissuta, poi raccontata.
Prima del 2015 (circa), viaggiavamo con taccuini, macchine fotografiche, cellulari (certo che sì, anche loro), i più avanzati con i tablet;
riempivamo interi quaderni di appunti, schizzi, elenchi; facevamo foto, interviste; lottavamo contro la nostra calligrafia distorta dalla scrittura su treni e auto.
poi una volta rientrati, entro tempi stabiliti dagli accordi con i partner, scrivevamo i nostri itinerari di viaggio rispettando la regola del “recollecion in tranquility“.
Quello che di noi travel blogger piaceva agli enti del turismo era proprio quella nota stilistica personale che solo nella fase di rielaborazione del viaggio ed elaborazione dell’articolo emergeva con forza.
Era quello che faceva sì che un travel blogger fosse scelto: la nota di stile, il suo modo di narrare, che parlava a determinate persone (target). E poi, solo in seconda istanza, anche i numeri e le visite uniche, anche se a dire il vero queste erano per lo più usate per le trattative dei compensi.
Nei miei primi blog tour, prima del 2015-2019, mi capitava di essere in gruppo con blogger già famosi, insieme a blogger con qualche decina di migliaia di lettori annui, insieme a giornalisti con piccolissimi blog appena nati, ma collaboratori di testate cartacee; per i tour operator e gli enti sponsorizzanti, quello che contava era arrivare a target diversificati di lettori, in grado di scegliere itinerari con cura, non certo a masse con interessi vari e confusi, vogliose di farsi un selfie e cambiare location.
Lo swipe up e il silenzio della voce: quando raccontare è diventato postare
Poi è arrivato Instagram, portando con sé nuove opportunità narrative, che ho anche molto amato, devo ammetterlo.
Ma ha anche portato un nuovo atteggiamento da parte dei partner dei progetti travel.
La narrazione testuale ha cominciato a perdere terreno a favore della prontezza, della reattività, della prestazione visiva. Non bastava più scrivere bene: bisognava essere costantemente presenti, performare l’esperienza mentre la si viveva.
A cavallo tra il 2015 e il 2019, la metrica principale delle collaborazioni è diventata una sola: i famigerati 10.000 follower che ti garantivano lo swipe up nelle stories.
Uno scivolo digitale verso i link, che però trascinava con sé un’intera visione del lavoro: quella secondo cui non eri più scelto per quello che avevi da dire o per come potevi dirlo, ma per quanti clic potevi portare mentre eri ancora lì, con la valigia a metà e la testa fra le stories da pubblicare.
Nel nuovo ecosistema digitale, il tempo per la scrittura si accorciava.
La voce si spegneva, compressa tra i cappelli enormi (e oggettivamente ridicoli) da indossare per le foto su Instagram, abitini svolazzanti improbabili per qualunque viaggiatrice avesse mai realmente varcato la soglia di un aeroporto, per catturare attenzione in tre secondi.
L’estetica del viaggio cambiava, diventata lineare, plastificata, lontana dalla realtà disordinata e caotica cui ogni vero viaggiatore e travel storyteller era realmente abituato.
In quegli anni, ricordo che trattare sui costi e sul valore degli articoli del blog con i tour operator era diventata una lotta complessa, condotta da poche (tra le poche, c’ero io).
Possiamo scegliere di tornare ad essere voci autentiche e riconoscibili.
Se anche tu vuoi ricominciare a raccontare con consapevolezza e libertà creativa,
entra nel minicorso gratuito che ho creato per chi non si riconosce più nell’ansia da performance.
👉Ti aspetto qui.
Quando ho alzato la voce, rifiutando il real time
E così il viaggio ha cominciato a diventare contenuto da produrre in tempo reale, non più esperienza da vivere e rielaborare.
Ricordo un episodio che mi ha segnata, da cui ho deciso che per me, le storie in tempo reale non sarebbero mai più state comprese nei miei accordi nei blog tour:
Un imprenditore con anni e anni di esperienza alle spalle raccontava a noi, un gruppo di creator, alcune scelte coraggiose della sua storia sul territorio, e noi eravamo con le teste chine sui cellulari, per inserire hashtag, tag e geotag alle storie (tutte uguali). Parlava ad una pletora di teste chine.
Quando senti un crack, e non è un osso, è il cuore.
Da lì (era il 2019) avrei iniziato a partecipare a tour solo scritti o co-scritti da me.
Avevamo storie, ci hanno chiesto numeri: l’arrivo del formato reel/tiktok
Poi sono arrivati i Reel, TikTok e i video in formato verticale da 15 secondi.
La prestazione, che prima era visiva, è diventata numerica. Gli enti del turismo — non tutti, ma molti — hanno iniziato a guardare solo il numero delle visualizzazioni, dei like, della reach. Non interessava più la qualità del contenuto, né la profondità dello sguardo: interessava la performance.
In questo nuovo contesto, è diventato sempre più difficile spiegare il valore di un place storytelling profondo, sensibile, capace di raccontare un territorio con rispetto e complessità.
Anche blogger molto brave hanno finito per rinunciare alla narrazione per dedicarsi solo a contenuti brevi e virali, piegandosi alla richiesta di format “che funzionano”.
Il risultato? Spesso, burnout e disillusione; persone di grande talento narrativo, trattate come carne da performance.
E tutto questo ha avuto conseguenze reali anche sui territori: contenuti superficiali e seriali hanno contribuito a spingere migliaia di persone verso gli stessi luoghi fragili, già sotto pressione, già stanchi.
La voce personale, attenta, filtrata dall’esperienza, è sparita dietro il ritmo delle tendenze.
Ma è ora di riprendercela.
Di tornare a raccontare come sappiamo fare. Con tempo. Con visione. Con senso.
Noi, che crediamo nel potere del tempo
Io voglio scrivere dopo.
Voglio prima camminare, ascoltare, osservare in silenzio. Voglio perdermi in una conversazione, in un odore, in una contraddizione. Voglio restare qualche secondo in più con lo sguardo dentro al paesaggio, senza doverlo incorniciare in 9:16.
Perché solo nel dopo, nel ritorno, nel ricordo, nel disordine delle impressioni che si depositano, nasce la mia voce.
La narrazione ha bisogno di tempo, di distanza, di vuoto.
Scrivere subito, mentre ancora si è dentro l’esperienza, è una corsa contro la profondità, nella logica che tutto schiaccia, appiattisce, brucia.
E allora sì: prima vivi, poi scrivi.
Che tu sia travel blogger, fotografa, creator o semplicemente essere umano con il cuore inquieto, questo è il tuo tempo per riprenderti la voce.
Non per farti sentire subito, ma per farti sentire meglio.
Per trovare (o ritrovare) la tua voce nella creator economy, creare e far funzionare i format che davvero ti rappresentano, segui il mio corso gratuito dal titolo ”
La tua voce nella creator economy: trova il tuo spazio tra vecchi e nuovi canali”
Si tratta di 10 video lezioni che riceverai via e-mail dal 1 al 10 giugno 2025.
Ti aspetto!
6 Comments
-
-
Katia
Io lo faccio tutt’ora: non riesco a scrivere subito, sopratutto dopo il covid. ho bisogno di godermi il momento, di farmi gli affari miei e a casa, di rielaborare il tutto. A volte penso di mollare la scrittura perchè la ritengo il mio modo di scrivere lento rispetto alla velocità di come sta andando tutto ora.
Non so se capita anche a te ma, spesso, quando riordino le foto scovo sempre qualcosa di nuovo: attimi, sfumature, colori, persone e oggetti ai quali non avevo fatto attenzione nel momento perchè presa da altro … e lì nasce una nuova storia!
-
Anna
Riflessioni bellissime.
Grazie sabrina!
Piotr
Questo lo sento tanto mio. Anche io spesso mi son forzato a scrivere “mentre” e poi mi accorgevo che perdevo qualcosa del viaggio. Alcuni momenti hanno bisogno di sedimentare, come un buon caffè turco lasciato sul fondo.