Piazza Taksim, a Istanbul, non ha zone d’ombra, non ha riparo.
Se piove, ti bagni, se tira vento, lo senti tutto, se fa caldo, vedrai il corno d’Oro sotto l’ombra e l’ossigeno del suo verde florido, ma tu soffrirai il caldo.
Piazza Taksim non ha zone d’Ombra.
A meno che tu non vada verso le scale che conducono nel piccolo Gezi Park, l’ultimo parco di Beyoğlu, tra i più piccoli dell’immensa città; più che un parco, un insieme di aiuole che hanno esagerato e sono diventate praticelli, con alberi frondosi e una fontana anonima.
Eppure per venire qui, ho affrontato un tram nell’ora di punta, una metro, un tratto a piedi in salita, mentre il mio corpo sanguinava come accade regolarmente, una volta al mese.
E ho dovuto aspettare il 3 giugno, perché dal 31 maggio al 2 la piazza era blindata, buona parte dei mezzi pubblici qui non arrivavano, droni di sorveglianza scansionavano ogni movimento e le forze di polizia erano ovunque.
Perché ogni anno, a metà primavera, qui si temono i fantasmi di Gezi Park.
I fantasmi di Gezi Park

Piazza Taksim da Gezi Park
Nel maggio 2013, Gezi Park era un fazzoletto di alberi nell’ombra del cemento di Taksim, e sembrava destinato a scomparire per far posto a un centro commerciale.
Pochi ambientalisti si accamparono sotto gli esigui platani per difenderlo. Un gesto piccolo, che la polizia risolse con irruenza: fumogeni, lacrimogeni, cariche.
La repressione fu brutale, sproporzionata. I video delle forze dell’ordine che picchiavano i manifestanti fecero il giro del paese.
Tra queste immagini, alcune diventarono simbolo della banalità del quotidiano che si imbatte nel fuoco della rivolta, come la ragazza in rosso, ritratta da Orman Orsal.
Scarpe primaverili, abito rubino casual indossato per una normale mattina in accademia, Ceyda Sungur viene presa di mira dal gas lacrimogeno a pochi centimetri di distanza.
Dal giardino alla protesta estesa
In poche ore migliaia di persone arrivarono per difendere non solo un giardino, ma il diritto di esistere in un’arena pubblica, risposta alle frustrazioni, umiliazioni, libertà negate.
La protesta divenne simbolo di opposizione alla privatizzazione degli spazi comuni, alle restrizioni, ai divieti di protesta e espressione, a tutto quello che le istituzioni stavano diventando, mentre si faceva finta di non vedere.
Le proteste andarono avanti per quasi tre mesi, da Piazza Taksim al resto della Turchia, e più andava avanti la protesta più aumentava la repressione.
Giorno dopo giorno, lo Stato riprese tutto e riscrisse la narrazione. I manifestanti diventarono “terroristi”, 244 dei quali processati e incarcerati.
Ancora oggi. nei giorni a cavallo tra il 31 maggio e il 2 giugno, Taksim e Gezi Park si blindano: quell’incontro pubblico, improvvisato e profondo, ha inciso la geografia della città e della sua memoria.
A cosa obbediamo, quando scegliamo dove andare

Piazza Taksim, dettaglio
Ho dovuto aspettare, per andare a Taksim e Gezi Park, dunque. E togliere tempo a tappe più vicine alle mie zone di confort estetico e fisico.
Ci sono andata perché la bellezza che cerchiamo nei luoghi, sa essere una gabbia, una galera.
Se viaggi oggi, lo sai già dove andare per trovare quello che ti fa sentire a tuo agio, non serve che sia un regime, un governo o un vigile urbano a decidere per te.
Ci pensiamo da sole a confinarci nelle nostre gabbie estetiche, scegliendo la parte fotogenica della città e lasciando fuori dai nostri itinerari quell’altrove dove la vita vera scorre.
Quando verranno davvero a indicarmi dove posso o non posso andare, varrà almeno la consolazione di non essere stata io, per prima e in autonomia, a scegliere in quali gabbie chiudermi.
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