A proposito di bagaglio a mano e spazi angusti, ecco un morso, un assaggio, una aperitivo di Diversamente a Sud, che parla (a modo suo) anche di compressioni maldestre.
Di abiti, mutande, pensieri, parole, opere. E omissioni.
***
‘E poi lui ti dirà: ah, ma sei andata al cinema da sola? Lo volevo vedere anche io quel film.
E tu dirai: lo puoi ancora vedere, è ancora in programmazione. E lui penserà che tu non volevi andare con lui, mentre tu hai solo pensato che non può darti per scontata e hai fatto a modo tuo.
E lui penserà: peccato! E tu penserai: peccato’.
Eh, sì. Peccato.
Chi dei due ha davvero perso un’occasione per concedersi un po’ di felicità? Per orgoglio? Per incapacità di salire su un treno quando passa, perché pensiamo che tanto tra un po’ ne passerà un altro? Chissà.
Unico pensiero comune: peccato.
Questo non l’ho detto, ovviamente. Perché ai propri peccati ognuno ci pensa da sé.
Io poi non sono mai stata brava a dare grandi aiuti e consigli. Men che mai al telefono, men che mai quando ho da preparare una valigia. Men che mai in coda al supermercato.
Non cercai di sforzarmi più di tanto nemmeno in quel caso, anche perché dovevo fare in modo di far entrare il necessario per non sapevo esattamente quanti giorni nel bagaglio della Ryanair. Il minimo indispensabile come tre paia di scarpe e il mio tablet, assieme alla stampa di quanto scritto sino ad ora.
Rifare le valigie mi dà tutte le volte una scarica di adrenalina indescrivibile. I voli low cost ormai hanno insegnato il dono della compressione come twitter ha insegnato il dono della sintesi.
Quando qualcuno ha il potere di dare uno spazio limitato alle tue parole e un peso limitato alla tua vita, ecco che improvvisamente, per banale sopravvivenza, sappiamo come esprimere il nostro ego in piccole gocce quotidiane. E allo stesso modo impariamo a mettere le mutande appallottolate nelle scarpe, le magliette ben piegate in piccoli rotolini da mettere uno accanto all’altro con lo stesso metodo dei rotoli salva spazio della carta igienica. Stesso metodo per i jeans in intercapedini un po’ più spaziose. Riesco a dare ad un maglioncino lo stesso volume di una foglia di papiro e a una giacca quello di una foglia di fico, e ci stanno anche loro. Ho messo via l’antiquato concetto di beauty. Ormai anche la bellezza deve essere mimetizzata e cercare i propri spazi tra un tacco a spillo e un paio di mutande compresse quasi in sottovuoto. Quindi metto un po’ qua un po’ là le confezioni da 99,9ml di crema idratante, latte detergente, fondotinta, dentifricio, shampoo per capelli tinti e sfruttati, crema corpo, crema mani, detergente intimo.
All’aeroporto di Brindisi è facile dimenticare quanto sappia essere lunga un’attesa al gate o estenuante un imbarco.
Si entra.
Si fanno i controlli.
I controllori vedono dalla tua carta di identità che sei autoctona e ti guardano con compassione perché vai a Milano.
Ti prendono in simpatia e se il metal detector suona, ti fanno passare senza farti togliere le scarpe e senza farti lasciare shampoo, acqua, taglierini, pistole, panetti di fumo.
Passi, ti siedi, dopo un po’ si aprono i gate, attraversi la strada e sali su un aereo come se stessi prendendo un taxi. Unico elemento di stress, le hostess che cercano invano di far capire che nelle cappelliere non bisogna mettere cappelli o giacche, ciabatte, panini, vasi da notte, fucili carichi.
E l’aereo decolla.
E dopo una dormita sei a Milano. Ma io non ho dormito. Per gli stessi motivi e moti intestinali per i quali non ho dormito per mesi. Ma cerco di non pensarci e all’arrivo faccio così tanto la snob terronchic da prendere il taxi. Anche perchè, ovviamente, poive.
Il taxi mi lascia all’ingresso di Brera, dove le auto non entrano per via dei sanpietrini acuminati.
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