In Kirghizistan, il corpo sportivo diventa corpo politico.
È memoria, strumento di sopravvivenza, archivio di gesti tramandati.
Nelle steppe e tra le montagne di Issyk-kul e Tien Shan, si cavalca non solo per sport, ma per continuare a esistere come popolo.
Dall’indipendenza dal morente gigante sovietico, nel 1991, i governi della (nuova e fragile) democrazie presidenziale kirghiza hanno giocato un sottile gioco diplomatico:
Gli anni nell’omologazione culturale forzata zarista prima, e dell’URSS poi, avevano quasi portato all’estinzione le pratiche nomadi delle 40 tribù kirghize, a vantaggio di un’economia stanziale e controllata e degli sport “normalizzati” di regime (atletica, ginnastica e discipline olimpiche).
Negli ultimi decenni, i governi kirghizi hanno intrapreso politiche di riaffermazione della propria identità, pur mantenendo il forte legame con la Russia moderna, da cui l’economia kirghiza ancora dipende fortemente.
Lo hanno fatto
- elevando la lingua kirghiza a lingua nazionale, pur senza eliminare il russo dall’insegnamento scolare obbligatorio
- promuovendo a sport nazionali le attività più care, per tradizione, alle popolazioni nomadi, ma coinvolgendo altri stati nelle competizioni e invitando capi di stato amici e politicamente influenti agli eventi inaugurali.
Nel 2012 è nato l’ambizioso World Nomad Games, un iper‑evento culturale-sportivo che ha attirato oltre 1.249 atleti da 74 Paesi, ospitato nella regione dell’Issyk-Kul in un ippodromo di ultima generazione costruito sul grande lago, a Cholpon-Ata.
Seguimi in questo itinerario tra i territori kirghizi che accolgono e custodiscono le attività sportive, parte dell’identità e del corpo nomade delle 40 tribu del Kirghizistan.
Puoi anche leggere un approfondito itinerario nei luoghi dell’economia nomade del Kirghizistan.
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Bokonbaevo e la caccia con l’aquila: la forza di un’alleanza ancestrale
A Bokonbaevo, sulle rive sudorientali del lago Issyk-Kul, la caccia con l’aquila non è ancora una messinscena per viaggiatori in cerca d’esotismo, resta una pratica viva, regolata, consapevole.
Ce lo spiega Nursultan, falconiere e veterinario: l’addestramento delle aquile è una relazione, un sapere che si trasmette in famiglia e resiste.
La caccia si svolge solo da febbraio a ottobre.
Durante i mesi restanti, gli animali selvatici si riproducono, e si lascia loro il tempo per farlo.
È un equilibrio fragile, ma rispettato e sacro.
Le mani di Nursultan hanno macchie di sangue, per piccole ferite, parte del gioco delle parti tra uomo e rapace, o per i piccoli pezzi di selvaggina fresca dati in premio all’animale.
Le aquile reali vivono circa 50 anni; quelle scelte per la caccia trascorrono i primi venti con la famiglia dell’allevatore.
Non sono mai del tutto addomesticate, né mai del tutto selvatiche di modo che, dopo due decenni di convivenza, possano essere rilasciate al volo libero e alla vita selvatica senza rischi.
Accanto alle aquile, nelle terre alte del Kirghizistan, corrono i cani Taigan: razza endemica e preziosa, compagni silenziosi dei cacciatori nomadi.
Snelli, muscolosi, resistenti alle altitudini, i Taigan crescono accanto ai rapaci, imparano a muoversi con loro, a rincorrere, ad aspettare.
Più che addestrare, si cresce insieme, persona, cane, aquila.
Corpi in equilibrio nei giochi a cavallo di Naryn
Sulle grandi pianure del Kirghizistan, il corpo nomade si racconta a cavallo. I giochi equestri tradizionali non sono solo sport: sono rituali collettivi, memoria viva, resistenza fisica e culturale.
Nel Buzkashi, anche detto kok-boru, due squadre si contendono una carcassa di agnello.
L’animale viene sacrificato secondo un’antica cerimonia, come segno di rispetto e ringraziamento. A chi guarda da fuori può sembrare troppo, ma per i kirghizi è un atto sacro, che lega uomo, animale e terra.
Nessun casco, nessuna protezione: cadere è la norma, non l’eccezione. I corpi si alzano pieni di polvere, le mani segnate da calli e urti. Eppure, i giovani cavalieri si alzano fieri in sella, posano per una foto, mostrano la loro forza e la loro grazia.
Aumenta anche il numero di ragazze che sposano questi sport, regolarmente ammesse alle competizioni e nei team ufficiali, alcune amazzoni come Diana Ashyrbaeva, fanno da role model per le altre, aumentando l’interesse femminile per queste attività che oscillano tra acrobazie, lotte, danze corpo a corpo.
Anche nel Er Enish, wrestling a cavallo, il corpo nomade è atletico, fluido, esposto (per regolamento ufficiale il dorso dei combattenti deve essere nudo).
Due atleti cercano di disarcionarsi in una prova di resistenza.
Qui la forza fisica si mescola all’istinto e all’equilibrio: il corpo non combatte da solo, combatte insieme all’animale, in una danza di potenza e concentrazione.
Vincere non è solo questione di muscoli, ma di esperienza, tecnica, capacità di leggere l’avversario e il terreno.
È uno sport che parla ancora di clan, di onore, di appartenenza; le sue origini risalgono alla letteratura epica Kirghiza, della quale ti parlerò in un prossimo articolo.
Concentrato nelle acrobazie a cavallo, il corpo nomade vive in equilibrio, con i muscoli in tensione.
Il percolo di perdere l’equilibrio o il controllo del cavallo non preoccupa, è parte del gioco dacché del gioco si ha memoria.
Preoccupa, semmai, il percolo di perdere l’identità nelle vie contorte che uniscono la tradizione allo spettacolo per turisti, il progresso all’omologazione per le economie vincenti nelle lotte geopolitiche globali.
Ed è giusto che la paura esista, accanto al coraggio.
4 Comments
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Sabrina - In My Suitcase
é molto probabile alice, in effeti nelle competizioni dei giochi nomadi kirghizi ci sono sempre squadre afghane,
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Sabrina - In My Suitcase
Il bello del racconto di viaggio: in un modo o nell’altro non si smette più di “tornare”. E tu lo sai bene…
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Alice
Che approfondimento interessante! Grazie per raccontare storie meno conosciute:) PS non ne sono certa, ma credo che il kok boru sia anche lo sport nazionale afgano (lì lo chiamano Buzkashi)